Sono passati 30 anni dal mio primo viaggio in Cina, quindi non è possibile risolvere questo paese con un semplice articolo come tutti gli altri che ho visitato.
In questi trenta, lunghissimi, anni, la Repubblica Popolare Cinese ha compiuto tanti e tali passi in avanti, in tutti i settori della vita pubblica e privata, che l'esperienza personale è diventata una testimonianza storica.
Quella dedicata alla Cina sarà quindi una parte, complessa e, possibilmente, razionalizzata, del mio sito.
Noi Italiani, ma probabilmente tutti gli europei e, in linea di massima, tutto il mondo occidentale, utilizza come unità di misura dei cambiamenti il secolo, a volte la metà di questo (nella prima metà dell'ottocento, ecc.). Altre volte si utilizzano eventi catastrofici, come ad esempio le guerre o le dittature (il ventennio fascista, il primo dopoguerra, il secondo dopoguerra, il '68) e quindi, negli anni recenti, magari si usano i decenni, che non sono stati ancora dimenticati da chi è in vita ma che sono, magari, ignoti ai più giovani.
Per i cinesi non funziona nello stesso modo! I piani del governo sono piani quinquennali fin dai tempi della rivoluzione e della nascita della Repubblica Popolare, ed alla fine di un piano quinquennale ne parte subito un altro, senza interruzioni. Ma il popolo cinese non conta il tempo storico nemmeno a lustri. Semplicemente il popolo cinese non fa riferimento al tempo cronologico per misurare i propri cambiamenti: il passato è passato, vale il presente e, soprattutto, vale il futuro.
Con ciò non voglio affermare, sbagliando, che il popolo cinese non abbia ricordi e memoria del passato, tutt'altro. Non c'è un sentimento per misurare il passato, non si applica la misura del paragone sentimentale così strettamente legato al rimpianto. Mai un cinese mi ha detto "si stava meglio una volta", oppure "eravamo poveri ma più felici" o tante altre affermazioni di questo genere nelle quali il cittadino Europeo medio si crogiola, spesso per mascherare una insoddisfazione o la mancanza di risultati positivi.
Il cinese non rimpiange il passato (nemmeno per la perduta gioventù) e non teme il futuro, ma lo affronta. Un po' questo fa parte della cultura orientale, che tende ad essere estremamente più fatalista della nostra, non essendo minata ed edulcorata dalla presenza di una entità superiore che ha già tutto programmato e che rivendica il controllo sullo svolgimento delle cose. La cultura orientale mette gli uomini al centro del mondo, il popolo (come insieme di uomini e donne) come unico artefice del futuro proprio e della comunità. Non c'è dunque spazio per la recriminazione: le cose si fanno per il miglioramento continuativo dell'intero sistema. Se qualcosa non va a buon fine, si lavora per porvi rimedio, analizzando l'insuccesso me senza recriminare sulla scelta che ha portato a quello.
Attenzione! Tutto questo è cultura, non politica. Il popolo cinese è così perché lo è dentro. Si capisce parlando con chiunque in Cina che il pragmatismo è la base della loro vita. Si vive oggi, si lavora per domani, non si teme l'insuccesso perché quello che si è costruito è comunque più di quello che si aveva al punto di partenza. In matematica si direbbe che la vita è una funzione sempre crescente ed il lavoro serve a rimanere sempre in un punto più alto di quello di partenza.
In questa differenza culturale enorme, che ci rende così diversi, c'è poi l'umanità. Quanto siamo diversi noi europei dai cinesi? Zero! La risposta è inequivocabile: Zero! Le persone, in qualsiasi paese del mondo, quando il loro essere non sia piegato e soggiogato da un qualsivoglia estremismo (sia esso religioso, politico, militare o civile), sono esattamente identiche. I sentimenti sono gli stessi, quelli di base, puri, naturali, incondizionati dai costumi del luogo. Le persone ridono, amano, piangono, parlano dei figli, delle loro passioni, dei loro sogni, dei loro dolori, dei loro lutti.
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