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Si fa presto a dire Cina.

Chi non ci è mai stato magari sogna di andarci, aspettandosi un viaggio tra cultura, tradizione e modernità. L’imprenditore sogna di farci affari (e soldi) con una certa facilità. Tutti ci accorgiamo della Cina a causa del ristorante cinese sotto casa, anzi oggi del negozio o del bar gestito da cinesi, oppure dell’etichetta di tutto quello che comperiamo: “Made in China”.

In realtà, per la mia lunga (fin troppo) esperienza sul campo da più di vent’anni, la Cina è molto diversa dall’immaginario collettivo, con molto meno fascino e molta più arroganza nascosta. A metà degli anni novanta la Cina era ancora un paese in larga parte rurale, in crescita veloce ma profondamente arretrato rispetto all’occidente. Si aveva un po’ la sensazione di andare alla scoperta di un pianeta nuovo, popolato di persone uguali a noi con cultura e tradizioni completamente diverse.

Ci si poteva mettere magari un po’ ad accettare la loro “diversa” educazione, soprattutto nel cosiddetto galateo, che riportava più a un buio medioevo che a una cultura classica, però alla fine si accettava che fosse un mondo diverso con la voglia di uscire dal proprio medioevo, non solo di forma ma anche sociale. Erano gli anni in cui comparivano le prime automobili, che si muovevano senza apparenti regole in fiumi di biciclette, quasi fossero delle canoe nelle rapide. Era ancora frequente incontrare carretti trainati da cavalli o asini, con i quali dalle campagne le merci venivano portate nelle città. C’erano mercatini per strada, tra la polvere e lo sporco, che vendevano alimenti freschi e cotti. Lo sporco, per l’appunto. Forse quello che mi ha colpito di più in quei primi viaggi è stata proprio l’assenza dell’igiene pubblica, cosa che per i nati negli anni sessanta nel nord Italia appare praticamente inverosimile. Acque di scarico in superficie, residui di cibo, di mercato, immondizia di ogni tipo nemmeno spostata da una parte all’altra, semplicemente abbandonata ad accumularsi e ad essere portata via dalla pioggia. Tutto questo in contrasto con i primi hotel di lusso, dove l’opulenza faraonica contrastava ancora di più con quello che c’era appena dietro l’angolo.

Ovviamente poi c’erano i cinesi, tanti, tantissimi, ma meno di adesso, perché meno concentrati nei centri urbani. È curioso avere a che fare con i cinesi: loro sono cinesi a casa propria (e ci mancherebbe!) però poi sono cinesi anche a casa degli altri. Pretendono (e negli anni novanta quasi con la forza) che l’occidentale di turno accetti tutte le loro tradizioni e regole, a volte realmente legate alla cultura cinese, a volte strettamente personali ma sempre proposte come tradizione ineluttabile e non trasgredibile. Quando poi però erano loro a muoversi, a venire in occidente, rifiutavano qualunque cambiamento al loro stile di vita: non mangiavano occidentale, non bevevano occidentale, non trattenevano le loro esuberanti manifestazioni corporali (sputare catarro ovunque, la più palese ed evidente), non accettavano nessuna regola della buona convivenza. Noi si pensava che fosse un momento passeggero, un po’ come gli italiani che nei primi del novecento emigravano negli Stati Uniti per vivere in un “ghetto” italiano, continuando a parlare i propri dialetti e passando la vita senza imparare una parola di inglese. Cambierà, ci dicevamo. Ci vorrà qualche anno ma cambierà.

Ecco, ci sbagliavamo di grosso!

Dopo vent’anni non sono cambiati affatto, almeno da questo punto di vista. Adesso vengono in occidente a milioni, a fare i turisti, anche se in realtà a loro della nostra cultura non interessa nulla. Vengono a fare i turisti perché l’attuale status symbol del cinese del ceto medio è quello di andare, una volta all’anno, in vacanza all’estero. Vengono, in milioni, ma non sono interessati alla nostra storia, all’arte, alle bellezze naturali, a nulla.

Tristemente mi sento di affermare che i cinesi sono cinesi e, tristemente per il nostro modo di vedere lo sviluppo della cultura umana, si accontentano di essere “solo” cinesi, sempre e comunque. Non sono un popolo del mondo, sono un mondo a parte e sono interessati solo al loro mondo. Questo è l’effetto di una dittatura che funziona da più di mezzo secolo ma che oggi, in un mondo più globalizzato, ha prodotto un effetto devastante. L’oscurantismo del partito, che non permette al popolo cinese di socializzare virtualmente con il resto del mondo, non ha impedito alla tecnologia di impadronirsi di questo popolo, lo solo costretto a socializzare solo con se stesso. In questo modo la chiusura verso il resto del mondo è aumentata ed è diventata irreversibile. La Cina è un mondo drammaticamente chiuso in se stesso, senza alcuna volontà di uscire da questa chiusura.

Sulla dittatura andrebbero spesi fiumi di parole, perché la situazione socio politica del paese rasenta il ridicolo. La bandiera rossa con falce e martello campeggia ovunque, ma il regime non ha nulla a che vedere con i principi basilari del socialismo e del comunismo. La Repubblica Popolare Cinese è popolare solo nel nome. In effetti è un sistema assolutamente capitalista, nel quale i comunisti sono (e devono essere) solo i poveri. Non esiste alcuna forma di welfare, tutt’altro. Il sistema sociale è del tutto simile a quello degli Stati Uniti: copertura sanitaria pubblica quasi inesistente (la sanità pubblica non fornisce cure per le malattie gravi e per la chirurgia), scuola pubblica obbligatoria ma senza nessuna possibilità di sbocco nel mondo del lavoro o universitario. In pratica i poveri imparano a leggere e scrivere come dal programma di Mao degli anni sessanta, una forma di alfabetizzazione semplificata che non consente l’accesso al mondo del lavoro ma solo al livello del servo della gleba.

Allora mi torna alla mente il mio background famigliare. Il nonno, lo zio, la zia ma anche mia mamma profondamente comunisti. Forse comunisti perché il comunismo era solo una filosofia, lontana quanto basta per evitarne gli effetti collaterali ma profondamente intelligente, come sono le filosofie, da essere condivisibile e utopistica. Un essere comunisti che era un vanto, perché dava la consapevolezza di credere in una politica vicina alle persone e che aveva l’utopia di considerare tutte le persone uguali. Forse non nell’accezione dei Soviet per la quale il tutti uguali significava anche stessa casa, stesso stipendio, stesso vestito, stesso pranzo ecc. Proprio perché credevamo in una filosofia, abbiamo saputo leggerla in un modo meno letterale, adeguarla al mondo della fine del ‘900. L’uguaglianza dei diritti e dei doveri, la persona al centro della visione politica. Il sistema cinese, invece, è qualcosa di profondamente sbagliato. È sempre sbagliato che vi sia qualcuno al potere che impone un modo di pensare e che reprime conoscenza e cultura. Ancora più sbagliato è che ci siano privilegi per i ricchi e nessuno spazio per la massa dei poveri, considerata carne da lavoro. Ma è questo il comunismo che avevano teorizzato Marx e Engels e poi reso politica attiva Lenin e Stalin? A mio parere questa forma di regime cinese è completamente diversa e, si alzasse dalla tomba Stalin, temo che i compagni cinesi diventerebbero tutti ottimi agricoltori della profonda siberia: una nuova Amazzonia riscaldata con il fiato.

Il partito ha plasmato le menti al punto che, anche discutendo con cinesi che hanno studiato e che girano il mondo, quando si entra in discussioni tecniche sembra sempre di parlare con degli ignoranti colossali, a volte persino un po’ stupidi nel non capire alcuni concetti base dello sviluppo industriale. Fino a un mese fa i giovani imprenditori cinesi sono cresciuti con la convinzione che tutto si può fare, basta comperare la tecnologia giusta. Infatti producono tutto loro, per tutto il resto del mondo, ma sempre e solo perché qualche imprenditore di un altro paese, dopo aver finalizzato progetti di ricerca e sviluppo, esporta la produzione per questioni di costo del lavoro.

L’esempio più palese di questa convinzione si ha vivendo qualche giorno in una fabbrica cinese. Ci sono macchinari europei (o cinesi copia di quelli europei) e lavoratori, tanti, tantissimi, troppi da un punto di vista imprenditoriali. Ma che importa? Sono in tanti, devono lavorare tutti e i salari sono comunque competitivi. Producono, con calma, circa un terzo in meno di quanto la medesima linea produce in Europa. D’altronde se quando lavori devi fermarti un attimo per bere acqua calda, un altro per sputare, poi per mandare qualche messaggio sul tuo (e solo tuo) social network, è chiaro che la produttività ne risente.

Per essere poi totalmente persuasi di vivere in un grande errore basta che, per esigenze fisiologiche, si decida di andare in bagno. Se l’occidentale di turno non esporta come procedure di lavoro, insieme a quella per far andare la macchina in produzione, igiene e pulizia, queste rimangono dei concetti completamente sconosciuti. Latrine fetide, mai pulite con un detergente, chissà forse a volte con dell’acqua, quando lo sporco ingombra il passaggio. Lo stesso dicasi in produzione, polvere e sporcizia ovunque, uno stato di lavoro simile a quello che si evince dalle foto d’epoca delle fabbriche di fine ottocento (e non tutte!). Anche esponendo all’imprenditore, giovane e sempre all’estero, il problema egli sembra quasi meravigliarsi. Risponde che loro lavano e pare non capire che c’è una differenza tra passare uno straccio bagnato e sporco sullo sporco e pulire con uno straccio pulito e un detergente. Eppure in casa puliscono, almeno i benestanti vivono in appartamenti molto puliti. Ma il concetto non si sposta in fabbrica e, quello che è più sconcertante, entrare in una latrina con l’aria irrespirabile non dà loro il minimo fastidio. È così e va bene così, sembra quasi che la pulizia sia uno status da raggiungere con la ricchezza e non una conquista sociale e culturale. Non c’è alcun interesse verso la crescita sociale, il che è a tutti gli effetti un paradosso nell’ultimo baluardo mondiale del socialismo.

Ma dopo l’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese le cose cambieranno: il presidente ha deciso che nei prossimi dieci anni la Cina avvierà un processo di rivoluzione tecnologica che la porterà ad essere il primo paese al mondo per invenzioni ed applicazioni di tecnologia, superando Europa e Stati Uniti. Il concetto di “fatto in Cina” cambierà e si parlerà di “progettato in Cina”. Lui ha deciso! E, per la verità, tutti sono convinti che sarà così e che riusciranno nel loro intento. I passi per arrivarci sono semplici: prima comperare tutti i tecnici e i ricercatori disponibili in occidente, inducendoli a lavorare per la Cina, poi brevettare le innovazioni ed applicarle nel paese per invadere il mondo di nuove tecnologie cinese.

Di buono il piano decennale ha che, almeno chi dirige, si rende conto che per innovare i cinesi devono rivolgersi alle menti occidentali, perché loro, nemmeno quando formati in occidente, non riescono a sviluppare in proprio nulla di realmente innovativo. Di male per noi il piano contiene un progetto che vorrebbe toglierci l’unica cosa che ci è rimasta, la creatività e la predisposizione al miglioramento, che è genetica più che scolastica. Di male per loro, ma suppongo abbiano pensato a qualche contromisura, c’è che la rivoluzione tecnologica produce, come effetto collaterale, l’assoluta riduzione dei lavoratori. Come questo effetto collaterale possa essere ovviato in un paese dove una buona percentuale della popolazione è pagata per fare dei lavori inutili non è facile intuirlo.

Passati sei mesi dalla “decisione” i primi effetti della “rivoluzione tecnologica” si iniziano a vedere. È quasi impossibile per noi occidentali mangiare, bere o comprare qualcosa. Le nostre carte di credito non sono più accettate praticamente da nessuna parte, così come i contanti in moltissimi negozi. L’unica forma di pagamento accettata è quella tramite telefono, una sorta di valuta virtuale che permette il controllo al 100% da parte dello stato. Un sistema parallelo, ovviamente per questioni numeriche molto superiore al nostro, che ha deciso di tagliare fuori il resto del mondo, in una sorta di delirio di onnipotenza che fa pensare a tutti i cinesi di poter essere loro a dettare le regole del mondo.

Il penultimo viaggio è stata l’occasione per un’esperienza unica: conoscere dei giapponesi. Per noi, superficialmente, cinesi e giapponesi non sono poi molto diversi. Una specie di differenza come quella tra italiani e francesi, diversi ma poi in fondo molto simili. Invece non è affatto così! I giapponesi sono persone di profonda cultura, rispettosi degli altri, amanti del bello in qualsiasi forma, desiderosi di conoscenza. Così con due vecchi giapponesi (82 e 77 anni) dei quali solo uno parlava due parole di uno stentatissimo inglese, ho passato una piacevole serata parlando di musica, di lirica, di cinema, di arte: la cultura che unisce, che diventa veicolo di scambio tra i popoli. Loro conoscevano Fellini e Tornatore, Pavarotti, Carreras e Domingo, ma anche la Callas e Mario Del Monaco, Muccino e Benigni, Firenze e Venezia e Roma, la Sicilia, io Kurosawa, il bonsai, il sake e l’origami. Poi tutti conoscevamo Hitchcock, Fred Astaire, Robert De Niro, Roberto Bolle. E allora foto, di uno spettacolo, dei figli, delle proprie città, non distese di palazzoni di cemento, ma scorci pittoreschi che esistono nella mia “piccola” Trieste come nella metropoli Tokio. E i cinesi? Zitti, loro, che nulla sanno perché nulla loro interessa se non ottemperare ai desideri del Presidente ed alla sete di denaro. Mentre i giapponesi amano le cose belle (e buone) e lavorano per potersele permettere, ai cinesi non importa nulla di entrambe. Lavorano perché… perché i cinesi devono lavorare e devono fare soldi!

Questo assioma del cinese brava formichina che lavora per fare grande la Cina è diffuso a tutti i livelli. Lavorano tante ore, questo è vero, perché misurano il lavoro in tempo, non in rendimento. Quando dovevo partire il solito impiegatino è venuto a prendermi in hotel. Seduti nella hall, aspettando il suo capo, si è premurato di andare a portare la mia valigia in auto, fermo restando che, una volta ritornato, dopo mezz’ora, mi ha detto che era ora di andare e siamo andati in auto. Allora la mia domanda è: sei stupido oppure corri solo perché hai paura che il partito ti veda seduto ad aspettare e decida che non sei più adatto? Manca completamente un concetto di libero arbitrio, di saper scegliere quale è la via più breve per raggiungere un risultato e, soprattutto, manche un concetto di autocritica. Ma l’autocritica non era un assioma del socialismo? Ricordo i noiossimi film sovietici degli anni ’60 e ‘70 che guardavamo con spirito critico a scuola, nei quali intere scene di decine di minuti erano dedicate alle riunioni di autocritica. Perché i cinesi non fanno l’autocritica socialista? Sono infallibili, non accettano mai (ma proprio mai) che quello che hanno stabilito nelle loro regole possa essere messo in discussione. A volte il comportamento è talmente paradossale che viene da chiedersi se si stia parlando con un minorato mentale: mettono in discussione la matematica o la chimica, in modo palese e sciocco.

È talmente paradossale la situazione comportamentale che è addirittura difficile da rendere con un esempio. Forse il più comprensibile è quello delle condizioni di lavoro: nel mondo occidentale esiste il concetto di “temperatura ambiente”. Lo ritroviamo scritto su medicinali, alimenti, imballaggi vari. Nemmeno ci facciamo caso, ma ha un significato abbastanza chiaro: il prodotto in questione non deve essere esposto al freddo ed al caldo eccessivi. Esiste ovviamente una definizione tecnica di temperatura ambiente,  che impone una temperatura dai 18 ai 28°C e una umidità intorno al 60%. Tutto questo non ha senso per i cinesi, che non riscaldano o raffreddano gli ambienti di lavoro. La temperatura di uno stabilimento (e purtroppo anche della maggioranza degli hotel e ambienti pubblici e privati fino al 15 novembre) è quella esterna. Quindi intorno allo zero (o anche molto di meno nelle zone interne) d’inverno e intorno ai 40-45° d’estate. In queste condizioni di lavoro ci si aspetta che prodotti deperibili o che temono il freddo o il caldo debbano funzionare lo stesso. Ebbene, non c’è verso di far loro capire che le temperature devono rientrare nelle tolleranze di benessere. Come monito per chi volesse fare una “gita” all’inizio di novembre, premunirsi con calzamaglia di lana, perché le camere degli alberghi (quando non siano catene internazionali di lusso nelle città principali) vi aspettano con la finestra spalancata e una temperatura interna esattamente uguale di quella esterna. Provate a mettere il letto sul vostro poggiolo e buona notte!

Come si sarà capito, non sono un grande amante della Cina, nonostante ne fossi rimasto affascinato negli anni ’90. Però quel mondo non c’è più e il fascino dell’esotico ha lasciato spazio solo a delle profonde differenze culturali paradossali, che si stanno ampliando molto velocemente. Immagino che chi in Cina ci è andato con un viaggio organizzato possa essere rimasto affascinato dai monumenti storici (pochissimi ma sufficienti per un viaggio), da qualche posto di interesse naturalistico e dal centro delle città più importanti. Una cosa però è vedere tutto questo dalla bolla dorata del viaggio organizzato, altra cosa è uscire da questa bolla e vivere il paese con gli indigeni. Il circuito turistico propone una specie di Disneyland pulita, lussuosa e brillante, un biglietto da visita da spendere. La Cina però è grande, tanto grande, ed è tanto, tanto diversa dal sito turistico. Non c’è spazio per alcuna integrazione, siamo due mondi totalmente paralleli che, almeno da parte cinese, non hanno nessun bisogno di toccarsi se non per scambiarsi denaro.

 

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